Buio in sala. Buona la prima… (e anche la seconda)!

Buio in sala. Scene dal secolo breve, un percorso di co-progettazione tra studenti e docenti delle quinte classi del Liceo Scientifico.

A cura delle classi quinte del Liceo Scientifico – 

«Il XIX secolo è stato un nuovo Rinascimento. La mente umana vi è stata stimolata a un grado di attività così intenso quale mai si era raggiunto prima, se non nell’epoca di Pericle e in quella di Michelangelo. È stata un’età tempestosa e difficile. Il XX secolo vedrà probabilmente la fine delle guerre. Tutte le razze barbare del mondo saranno civilizzate… È certamente motivo di soddisfazione l’aver vissuto i difficili anni che stanno per terminare, ma ce ne separeremo con gioia per accogliere l’età dell’oro che è alle porte.» Così William Hearst, proprietario di un paio di dozzine di giornali negli Stati Uniti, salutava il 31 dicembre 1899 l’arrivo del Novecento. Raramente previsione fu meno azzeccata: il sogno di una nuova età dell’oro sarebbe naufragato di lì a poco nelle trincee della Prima guerra mondiale, e poi nei bombardamenti della Seconda, nei lager nazisti e nei gulag staliniani, nel genocidio degli armeni e nella pulizia etnica dei serbi, nelle mille tragedie che hanno fatto del Novecento il secolo più insanguinato della storia. E i pur straordinari progressi della scienza e della tecnica, l’energia atomica, i missili, la televisione, la medicina, l’informatica, la genetica continuano a poter essere utilizzati tanto per costruire quanto per distruggere: oggi come sempre, la scelta tocca alla coscienza di ciascuno. Da questo presupposto e dalla volontà di capire qualcosa di più del cosiddetto “secolo breve”, secondo la celebre definizione di Heric Hobsbawn, è nato Buio in sala. Scene dal secolo breve, un percorso di co-progettazione tra studenti e docenti delle quinte classi del Liceo Scientifico. Un progetto interdisciplinare in sette incontri, che vedrà scorrere, attraverso film attentamente selezionati, scene, protagonisti e processi che il Novecento ha fissato, in modo indelebile, nelle nostre menti e nelle nostre coscienze.

Come primo film della rassegna è stato individuato Tempi Moderni, che non a caso è stato definito un “manifesto del XX secolo”: infatti esso rende egregiamente uno spaccato fondamentale del secolo breve, stigmatizzando con momenti di grande poesia le storture di una società e di un sistema votati al profitto a discapito dei valori umani. Giuseppe Tornatore ha parlato di un titolo sapientemente scelto trattandosi di una pellicola eternamente moderna. Tempi moderni è un capolavoro cinematografico scritto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin, uno dei più grandi geni del cinema di tutti i tempi. Il film, prodotto nel 1936, rappresenta un punto culminante nella carriera dell’autore. Nel film Charlot è un operaio di una fabbrica; i gesti ripetitivi, le infinite ore di lavoro, i ritmi disumani e spersonalizzanti della catena di montaggio lo portano ad essere ossessionato dai bulloni. La pellicola, a nostro avviso, rappresenta un monologo disperato sull’alienazione del lavoratore. Siamo in pieno taylorismo, quel processo produttivo figlio della Seconda Rivoluzione Industriale, che razionalizzò il lavoro a tal punto da eliminare tutte le inefficienze produttive: pause, rallentamenti, momenti di socialità e iniziative informali. Tutte le teorie successive si rifecero al sistema di Taylor. È il caso del fordismo che applicò al noto modello, la produzione in serie su nastri trasportatori. Il protagonista del film, non a caso, finirà sul rullo meccanico risucchiato dagli ingranaggi. Negli anni Venti e Trenta del Novecento alcuni studi sull’organizzazione industriale, misero in evidenza i lati oscuri del taylorismo, cercando soluzioni alternative allo sfruttamento e all’alienazione. Qualche anno più tardi le Scienze Umane verificarono gli effetti di alcune variabili psicologiche sugli operai di fabbrica. Si scoprì che la produzione aumentava notevolmente con alcuni accorgimenti come la riduzione dell’orario lavorativo, l’introduzione di dovute pause e la costruzione di relazioni sociali positive. Venne rilevato che il profitto continuava a crescere con l’uso sistematico di incentivi morali od economici. I sociologi del periodo formularono la teoria del «sistema cooperativo», ovvero la necessità di una collaborazione tra chi dirige l’azienda, i capi-reparto e gli operai. Durante la Seconda Rivoluzione Industriale, dunque, fu l’avvento della “macchina” a modificare il rapporto uomo-prodotto e uomo-uomo.

E oggi? In che rivoluzione siamo?

L’avvento della tecnologia ha modificato il rapporto uomo-computer. Sicuramente con la diffusione dei Pc e della rete ci siamo trovati di fronte ad una Terza rivoluzione industriale, quella informatica. Siamo nell’era digitale con nuove forme di pianificazione del lavoro. Ne è un esempio il modello giapponese da poco trapiantato in Occidente: il Toyota Production System. L’approccio pur essendo incentrato sui processi produttivi, non utilizza sistemi elettronici per incrementare l’automazione, né punta a sostituire la manodopera umana. Il Toyota Way ha come obiettivo la riduzione dei costi produttivi (lo slogan è: “zero scorte, zero scarti”) e la valorizzazione dei lavoratori. In pratica il sistema è basato su due pilastri: il miglioramento continuo ed il rispetto per le persone. Gli operai del modello toyotista hanno ampia autonomia decisionale e possono organizzarsi in gruppi di lavoro orientati al fine. Per il momento slitta, sulla scia del tempo, l’idea di una Quarta Rivoluzione Industriale ma la prospettiva di un mondo del lavoro popolato da robot che agiscono, ma soprattutto pensano al posto nostro, si avvicina pian piano. Il dominio dall’intelligenza artificiale e la smaterializzazione del lavoro umano arriveranno presto. Possiamo fin da ora immaginarci il nostro caro Sir Charles Spencer Chaplin alle prese con la nuova variabile organizzativa del lavoro. Cosa farebbe nell’era digitale?

È possibile che Charlot si faccia prendere dalla mania del touch. Non solo. L’intelligenza artificiale sostituirà lentamente tutto il lavoro umano standardizzato. A suonare la carica dei robot saranno moltissime professioni. E allora Charlot sarà per strada, con il viso su qualche dispositivo a cercar lavoro o ad inventarsene uno. Guarderà il proprio riflesso in un grande display illuminato e si farà scendere la lacrimuccia.

E così, passando dalla figura senza tempo di Charlot a noi ragazzi della Generazione- Z, la domanda resta sempre la stessa: dobbiamo difenderci dalla tecnologia? Ma soprattutto ci chiediamo: in un futuro non molto lontano, dovremo rimpiangere la produzione dei pacchi tipica dei magazzini Amazon? Per il momento le nostre idee corrono veloci sul nastro trasportatore al pari delle merci che i robot scansionano per creare imballaggi su misura, al ritmo di 700 pezzi al minuto. Il futuro è alle porte. La sfida a “reinventare un lavoro” va accolta rapidamente. Noi siamo pronti.

Non meno interessante è stato il secondo film della rassegna Orizzonti di gloria (Paths of Glory) del 1957 co-sceneggiato e diretto da Stanley Kubrick. Tratto dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, il film è ambientato durante la prima guerra mondiale e vede Kirk Douglas nei panni del colonnello Dax, un ufficiale comandante di soldati francesi che si rifiutano di continuare un attacco suicida, dopo il quale Dax tenta di difenderli contro un’accusa di codardia in una corte marziale. Proiettato in anteprima a Monaco di Baviera il 1º novembre 1957 e distribuito negli Stati Uniti a Natale dalla United Artists, il film fu lodato dalla critica. Nel 1992 fu scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso in quanto “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”.

La pellicola è un capolavoro del cinema antimilitarista. Il titolo originale “Paths of glory” deriva da un verso di “Elegy Written in a Country Churchyard” (1750) di Thomas Gray che recita: “I sentieri della gloria non portano che alla tomba”. In effetti l’espressione sintetizza lo spirito della sceneggiatura di Kubrick, dimostrando come, nel profilo ingiusto della guerra, un ufficiale per inseguire il suo onore utilizza ogni mezzo, seppur a costo della vita dei propri soldati. Pur essendo un film sulla guerra, in Orizzonti di gloria la guerra si vede poco o niente, né si vedono i nemici. Si avvertono invece fortemente la paura di morire, la brutalità della guerra e delle sue conseguenze, i diversi volti del militarismo, l’ottusità cieca di Mireau, che non riesce a vedere una sconfitta annunciata, il cinismo di Broulard che ritiene che la fucilazione possa rialzare il morale degli uomini. Non si salva nemmeno l’unico eroe positivo della pellicola. Dax infatti, pur comprendendo l’assurdità degli ordini ricevuti, non li mette in discussione. Dunque il messaggio di fondo del film è che la guerra, rovesciando ogni etica, riesce a tirar fuori il peggio da ogni essere umano, la crudeltà, i vizi, l’abuso di potere e anche una persona comune può diventare un terribile mostro. Kubrick però, con l’ultima indimenticabile scena, invia allo spettatore un messaggio di pace che affida ad una donna, attraverso il linguaggio universale della musica, e che diventa simbolo di una possibile armonia tra tutti gli uomini.

Il prossimo appuntamento della rassegna, previsto per il 18 gennaio, prevede la proiezione di “La stranezza”, del 2022, diretto da Roberto Andò e interpretato da Toni Servillo e Ficarra e Picone.