a cura di Emma D’Agostino – 5ªS2 – Liceo Scientifico –
Non li toccate quei diciotto sassi che fanno aiuola con a capo issata la «spalliera» di Cristo. I fiori, sì, quando saranno secchi, quelli toglieteli, ma la «spalliera», povera e sovrana, e quei diciotto irregolari sassi, messi a difesa di una voce altissima, non li togliete più! […]
E. De Filippo
Pasolini. Un delitto italiano.
Il quarto appuntamento di –Buio in sala. Scene dal secolo breve-, la rassegna cinematografica nata da un percorso di co-progettazione tra studenti e docenti delle quinte classi del Liceo Scientifico, ha visto la discussione e la proiezione di “Pasolini. Un delitto italiano” di Marco Tullio Giordana. Lo scrittore e regista di forte impegno civile offre un’intensa e antiretorica ricostruzione dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini e delle successive vicende giudiziarie riaprendo una ferita mai sanata nella storia sociale e culturale italiana.
Come è noto, nella notte tra il 1º e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, località di Roma. Il cadavere massacrato venne ritrovato da una donna alle 6 e 30 circa e riconosciuto dall’amico Ninetto Davoli. Dell’omicidio fu incolpato Pino Pelosi di Guidonia, di diciassette anni, già noto alla polizia come ladro di auto e “ragazzo di vita“, fermato la notte stessa alla guida dell’auto del Pasolini. Pelosi affermò di essere stato avvicinato dal poeta nelle vicinanze della Stazione Termini, presso il Bar Gambrinus di Piazza dei Cinquecento, e da questi invitato sulla sua vettura (un’Alfa Romeo 2000 GT Veloce) dietro la promessa di un compenso in denaro. La tragedia, secondo la sentenza, scaturì a seguito di una lite per pretese sessuali di Pasolini alle quali Pelosi era riluttante, degenerata in un litigio fuori dalla vettura. Il giovane venne minacciato con un bastone del quale poi si impadronì per percuotere Pasolini fino a farlo stramazzare al suolo, gravemente ferito ma ancora vivo. Quindi Pelosi salì a bordo dell’auto dello scrittore e travolse più volte con le ruote il corpo, provocandone la morte per compressione toracica. Gli abiti di Pelosi non mostrarono però tracce di sangue. Egli venne condannato in primo grado per omicidio volontario in concorso con ignoti, alla pena di 9 anni di carcere, e il 4 dicembre del 1976 la sentenza della Corte d’Appello, pur confermando la condanna dell’unico imputato, riformava parzialmente la sentenza di primo grado escludendo ogni riferimento al concorso con ignoti. Tanti però fin da subito furono i dubbi circa la ricostruzione giudiziaria.
Due settimane dopo il delitto apparve un’inchiesta su L’Europeo con un articolo di Oriana Fallaci, che ipotizzava una premeditazione e il concorso di almeno altre due persone. Ipotesi suffragata anche dalla testimonianza, poi ritrattata, di un ragazzo che, tra molte esitazioni, avrebbe dichiarato di aver fatto parte del gruppo che aveva massacrato il poeta; il giovane tuttavia, dopo una iniziale collaborazione avrebbe rifiutato di fornire altre informazioni, dileguandosi dopo aver lasciato intendere di rischiare la vita confessando la propria partecipazione e concludendo che non sarebbe stata intenzione del gruppo uccidere il poeta, ma che si sarebbe trattato di una rapina degenerata. Diversi abitanti delle numerose abitazioni abusive esistenti in via dell’Idroscalo confidarono in seguito alla stampa di aver sentito urla concitate e rumori – indizio della presenza di ben più di due persone sul posto – ed invocazioni disperate di aiuto da parte del Pasolini la notte del delitto, ma senza nessun soccorso.
Nella sua biografia su Pasolini Enzo Siciliano sostiene che il racconto dell’imputato presentava delle falle perché il bastone di legno – in realtà, una tavoletta di legno utilizzata precariamente per indicare il numero civico e l’abitazione di una delle baracche – a lui sembrava marcita per l’umidità e troppo deteriorata per costituire l’arma contundente che aveva causato le gravissime ferite riscontrate sul cadavere del poeta e rimarcando l’impossibilità, per un giovane minuto come il Pelosi, di sopraffare un uomo agile e forte come Pasolini senza presentare né tracce della presunta lotta, né macchie di sangue sulla sua persona o sugli indumenti.
L’inchiesta di Marco Tullio Giordana arriva alla conclusione che Pelosi non fosse solo. Lo stesso Giordana però ha precisato, in un’intervista al Corriere della Sera, che non intendeva sostenere a tutti i costi la matrice politica nel delitto. Ha dichiarato inoltre di non escludere altre possibilità, per esempio quella di un incontro omosessuale di gruppo degenerato in violenza.
Nel maggio 2005, Pelosi, dopo aver mantenuto invariata la sua assunzione di colpevolezza per trent’anni, a sorpresa, nel corso di un’intervista televisiva, ha affermato di non essere l’esecutore materiale del delitto di Pier Paolo Pasolini, e ha dichiarato che l’omicidio era stato commesso da altre tre persone, giunte su una autovettura targata Catania, che a suo dire parlavano con accento “calabrese o siciliano” e, durante il massacro, avrebbero ripetutamente inveito contro il poeta gridandogli “jarrusu” (termine gergale siciliano, utilizzato in senso dispregiativo nei confronti degli omosessuali). A trent’anni dalla morte, assieme alla ritrattazione di Pelosi, è emersa anche la testimonianza di Sergio Citti, amico e collega di Pasolini, su una sparizione di copie dell’ultimo film Salò e su un eventuale incontro con dei malavitosi per trattare la restituzione.
Un’ipotesi molto più inquietante collega l’omicidio alla “lotta di potere” che prendeva forma in quegli anni nel settore petrolchimico, tra Eni e Montedison, tra Enrico Mattei e Eugenio Cefis. Pasolini, infatti, si interessò al ruolo svolto da Cefis nella storia e nella politica italiana, facendone uno dei due personaggi “chiave”, assieme a Mattei, di Petrolio, il romanzo-inchiesta (uscito postumo nel 1992) al quale stava lavorando poco prima della morte e di cui sparirono misteriosamente circa settanta pagine.
Altri collegano la morte di Pasolini alle sue accuse a importanti politici di governo per collusione con le stragi di quegli anni. Un suo ben noto articolo dal titolo Io so, pubblicato sulle pagine del Corriere della Sera il 14 novembre del 1974 potrebbe essere stata la sua condanna a morte.
Walter Veltroni il 22 marzo 2010 ha scritto al Ministro della Giustizia Angelino Alfano una lettera aperta, pubblicata sul Corriere della sera, chiedendogli la riapertura del caso, sottolineando che Pasolini è morto negli anni settanta, “anni cui si facevano stragi e si ordivano trame“. Dunque Pasolini potrebbe essere stato vittima di gruppi di picchiatori neofascisti.
Le nuove indagini non hanno aggiunto nulla rispetto alla sentenza, se non la presenza di alcune tracce di Dna sui vestiti dello scrittore. Tracce però di impossibile attribuzione e impossibili da collocare temporalmente, se durante il delitto o nei giorni precedenti. Dunque, nonostante dichiarazioni, controdichiarazioni e tentativi di riaprire l’istruttoria, nel 2015 il caso è stato chiuso e nel 2017 Pino Pelosi è morto portando con sé la presunta verità. Tutti i documenti della vicenda, inclusi oggetti e apparecchi ritrovati sul luogo del delitto di Pasolini, vennero chiusi in una scatola e archiviati.
A quasi cinquant’anni dalla morte di Pasolini tanti dubbi e incertezze permangono e l’accertamento della verità si dovrebbe alla Storia oltre che all’intellettuale scomodo ma lucido che è stato Pier Paolo Pasolini. Meriterebbe finalmente, per dirla con l’amica Dacia Maraini, di essere in corsa sulle dune di un cielo non più ostile.
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